LA PIETRA FUNGAIA . . . . . .

UNA “PIETRA CHE GENERA FUNGHI”

Di Anna Laura Fanelli

Può sembrare una favola, ma è storia vera. Quando al convegno CEMM di Picerno (PZ) la giovane ricercatrice perugina, mi sussurrò in un fiato: “Ho trovato la pietra fungaia” mi parve un sogno.

Dall’immaginaria scatola magica dove, in un angolino del mio cervello, ho riposto da sempre tutti quei “funghi . . ..mah . . . . .chissà . . . forse un giorno li vedrò” in un attimo si visualizzarono, quasi anteprima di stampa, le molte fantasticherie lette su quella generatrice di funghi.

L’indomani avrei fatto parte di un piccolo gruppo che ne avrebbe visitato la stazione di crescita, promessa dalla giovane!

Il giorno dopo in quel luogo segreto, era una folla vociante, che spintonava per appropriarsi del posto più vicino possibile alla pietra del desiderio.

Intanto, scavata con delicata cautela da Tonino, il tartufaio nostra guida, andava scoprendosi una massa bruna, di forma piuttosto irregolare, che si differenziava dalla terra circostante non tanto per il colore ma per la sua compattezza.

Ben presto gli osservatori, esaurita la loro curiosità, si allontanarono nella faggeta; Tonino aveva iniziato a ricoprire la pietra con gesti dolci come carezze. La mia emozione per aver visto dal vivo lo sclerozio di Polyporus tuberaster si confondeva con quella di quell’uomo che, fino all’ultimo, si era schermito dall’accompagnarci come se la presenza di tante persone avesse potuto rompere la magia di quel sasso produttore di funghi, da secoli possesso della tradizione orale della sua gente. Al pomeriggio, nella sala degli addetti ai lavori, una pietra simile a quella del mattino, troneggiava, sezionata, su di un vassoio esponendo al pubblico ludibrio micologico le proprie interiora: una superficie bruna, percorsa da ciurconvoluzioni biancastre, in una vaga analogia con la gleba dei tartufi, marmorizzata da chiare vene sporifere. Gli giacevano a accanto, seppur rinsecchiti, due esemplari di carpofori: semplificazione morfologica dei funghi, nati nell’orto botanico di Perugia da una delle “pietre” ivi trasportate.

Un gambo, più o meno eccentrico, biancastro e con base irsuta di bruno, sorreggeva un cappello di 5-6 cm, carnoso depresso, fitto di squame pelose in ciuffetti concentrici; al di sotto, i pori erano bianco cremei, angoloso poligonali. Una miniatura di Poliporo squamoso

Ma di aspetto più regolare. Per gentil concessione e a titolo di studio, si otteneva un frammento di pietra da osservare al microscopio: massa miceliare che, nel crescere, aveva agglutinato i più disparati materiali (terra, sassi, radichette ecc..). Quindi non già uno sclerozio, ma uno pseudo sclerozio, essendo il primo costituito di sola massa miceliare: un involucro pigmentato e fitto; un nucleo midolloso, più lassamente filamentoso. Di fatto, precisazioni possibili solo alla luce di maggiori conoscenze e metodi d’indagine più sottili di quelli dei tempi in cui il Lapis lyncurius si credeva fosse null’altro che orina di lince fossilizzata, da cui “……nasce un fungo di mirabile natura” secondo la prima documentazione scritta del naturalista e filologo, Ermolao Barbaro.

E questa sua natura di mezza pietra e di mezzo vegetale conservò per tutto il secolo XVII, anche se alcuni naturalisti già nel 500 la ritenessero un fungo. Tra gli altri P. Andrea Cesalpino, autore di un primo antesignano tentativo di inquadramento sistematico dei vegetali (De plantis libri XVI – 1583), in cui figura tra i funghi allora noti. Del resto, in quel periodo, i funghi erano ancora considerati ”…..privi di frutto e di seme….”e dalle più strane origini. In qualcuno, più attento, in verità si era insinuato il dubbio, tant’è che un tal Ferrante Imperato, farmacista in Napoli, arriva (1599) a riconoscerne la natura vegetale.

Per lui, che di queste “pietre” doveva averne viste parecchie, portate dalle montagne vicine, erano infatti “tartufi fungarii” assai prossimi ai tartufi veri, i “tartufi di cibo”. A conclusione assai simile giunge anche un suo conterraneo, M.Aurelio Severino, che sottopone la pietra a distillazione secca e ne ricava “acqua fatua”, “oleum gaujacinum” e ceneri: Lapis fungifera quindi, e non più Lapis lyncurius!

Siamo ormai nella fase delle sperimentazioni a tutto campo nel mondo naturale funghi compresi. Grande progresso: un’indagine disancorata dall’autorità degli antichi classici, che come Aristotele fino allora avevano fatto scuola! Nel secolo XVII tira insomma un vento di osservazione più obiettivo, più logico: una voglia di scienza sperimentale. La pietra e i funghi sono ancora nel limbo oscuro della generazione spontanea, avvolti nel mistero della loro riproduzione. Ma, con la creazione dei primi Orti Botanici, la nascita delle Accademie scientifiche e la stampa delle monografie micologiche, si va approfondendo la conoscenza botanica e dei funghi. Già qualche autore (G.Battista Porta) in piena Controriforma, azzarda affermare che ”…..tutte le piante hanno semi….” e divulgare di aver ricavato dai “funghi che che nascono dal sasso” un seme piccolissimo. Si era ormai alla polvere seminale che, alcuni anni dopo, il padre della Micologia, P.Antonio Micheli, con una piccola lente e un rozzo microscopio avrebbe acutamente osservato, facendo anche esperimenti sulla sua germinazione.

Contro la modestia di questo infaticabile Maestro che quasi a voler giustificare la scoperta, scriveva che senza microscopio ”…. .. nell’età antecedente a Galileo, nessun scrutatore delle forme più minute della natura fu in grado di scorgere ……nei funghi questi semi…..così minuti” fu ovviamente la solita ridda di invidiose denigrazioni, ma anche di grande interesse.

I funghi avevano acquisito il diritto di pari dignità con gli altri organismi viventi, insieme ai quali di lì a poco (1753) Linneo li avrebbe inquadrati nel suo Sistema naturale e il conterraneo E. Fries descritti nel Sistema mycologicum!